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Dare forma al mondo

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14 Nov

Dare forma al mondo

Sono dalle parti della Scuola dell’Infanzia con la mia cagnolina. Una mamma ha appena accompagnato il “grande” in sezione e si sta allontanando col piccolo di circa due anni nel passeggino. Mentre procedono lei gli parla di quello che lui sta guardando «Quello è il campo dove gioca a calcio Enrico, ti ricordi che l’abbiamo visto settimana scorsa?» e con le sue parole collega il bambino al mondo che condividono, alle azioni che hanno compiuto e al fratello che in quel momento non è con loro.
Poco più avanti un nonno tiene in braccio un bimbetto della stessa età e procedendo lungo la strada canta tutto quello che attira l’attenzione del nipotino.
Cantando il nonno “dà forma” al mondo e nell’istantanea tenorile entriamo anche noi, io e Mirò, cantate di primo mattino: «Guarda la cagnolina che ti guarda, Martino, mentre la signora le dà un biscottino!».
Io sperimento il beneficio di far parte di un’esperienza che, seppure piccola, ci unisce, mentre la mia mente corre a tutti quei bambini “trasportati” da adulti che compulsano un telefono e non parlano con loro, non parlano a loro e non costruiscono con loro un mondo di significati.
Mezz’ora più tardi, come se l’avessi evocato, sono su un autobus e un padre sale spingendo un passeggino con un bambino di circa due anni. Un altro bambino poco più grande sale con lui. Sistemato il passeggino l’uomo compie col capo un unico gesto, non accompagnato da alcuna parola, e il grandicello ubbidiente si siede al mio fianco. Senza produrre nessun suono il padre gli consegna il suo grosso telefono e il bimbetto, che lo stava aspettando, comincia a darsi da fare con perizia. Il più piccolo fa segno di voler uscire dal suo “quattroruote” ma il padre, ancora, con un gesto pacato, e solo con quello, glielo impedisce. Dopodiché gli toglie dai capelli briciole di qualcosa, scrutandoli con tenera attenzione.
E mi ritrovo a pensare alle interazioni mute. A quello stare insieme in cui la parola non accompagna, sostiene e dà significato. Anche quando, come in questo brevissimo esempio, la relazione è evidentemente plasmata dall’affetto.
Mi preoccupano anche i bambini che hanno sempre tra le mani un telefonino, un tablet. Che se lo aspettano, che hanno appena smesso di usarlo, che non riescono a smettere di usarlo.
Ma prima ancora mi dispiacciono le interazioni mute, lo stare insieme su un autobus ma ognuno per proprio conto, senza guardare le stesse cose fuori e provare a dargli un nome, dei nomi, senza richiamare l’attenzione dell’altro per qualcosa che accade, che si vede, che non si sa cosa sia, che ci piace, che non ci piace, che ci spaventa, che ci diverte. Senza comunicare qualcosa, richiamare l’attenzione, collegarsi con qualcos’altro che già si conosce o che si ha già sperimentato.
I genitori che incontro mi raccontano spesso delle loro infanzie mute, di rapporti affettivi “funzionali”, nei quali gli scambi erano limitati all’indispensabile. Anche adesso, da adulti, a loro volta genitori, soffrono il clima asciutto, talvolta arido nel quale si svolgono gli incontri con le famiglie di origine: «si pranza e poi subito ci si occupa di lavare i piatti» eppure, nonostante l’esperienza fatta – o proprio per quello – trovano difficile parlare con i loro figli, trovano così difficile parlare, che non credono di essere capaci di poterlo fare per un’ora. E invece lo sono, ci riescono e se ne stupiscono loro stessi. E poco alla volta la comunicazione tracima dal momento della consulenza a quello della vita coi figli.

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