Quando entra in casa
Quando entra in casa dopo la scuola capisco che c’è qualcosa che non gira. «C’è qualcun’altro a pranzo?» mi chiede. «No ci sono solo io, ti posso bastare?»
Percepisco che sono di troppo e non troppo poco, la osservo con la coda dell’occhio sdraiata sul divano, prona, assente, apatica. Le chiedo aiuto per il pranzo, di apparecchiare la tavola, di vuotare il bidone dell’organico – anch’io ho da fare e poco dopo pranzo dovrò andare a lavorare. Mi risponde male, si rifiuta, vorrebbe giocare al computer e fa di tutto per forzare il mio divieto; le ricordo i nostri accordi di collaborazione reciproca e sbuffando fa quello che le chiedo.
Il malumore è percepibile, denso come la nebbia d’inverno, impalpabile eppure presente. So che lo dovrò attraversare. Finalmente siamo a tavola e in fondo non è neppure tardi. La guardo. Mi accorgo che si è tirata sotto al tavolo, stretta stretta, come quando era piccola e aveva bisogno di sentirsi contenuta. Provo un’infinita tenerezza per questa figlia così intensa, passionale e certe volte anche faticosa. La prendo alla larga, meglio lavorare per cerchi concentrici. So per esperienza che devo darle il tempo di scendere nelle sue “cantine” un gradino alla volta.
« Cosa avete fatto oggi a scuola?»« Le solite cose.»« Con chi fate informatica?»« La PEDRETTI » calca, per sottolineare la mia congenita incapacità a ricordare i nomi degli insegnanti.« Ma guardandoti ho l’impressione che non sia andata un gran bene.»La passerella è gettata e la ragazzina ci si inerpica come su un ponte tibetano, oscillando, rischiando di perdere la presa, tutta fremente di dolore.« No le cose non sono andate bene, c’è stata la verifica di inglese e io non lo sapevo, ho sbagliato tutto lo so e, guarda, ti faccio vedere le verifiche, per fortuna che erano prove di ingresso, questa per ultima, prima il dettato (9), poi il riassunto (8) ecco, invece nell’analisi logica ho preso 5, invece Margherita, che ha fatto più errori di me, 6.»
È una tromba d’aria questa figlia, un torrente tumultuoso che trasporta autocommiserazione, orgoglio ferito, doloroso confronto con la realtà e coi propri limiti. I tempi dei verbi uno fra tutti.
Per aver voglia di guardare e trattare i propri limiti prima dobbiamo essere accolti come si deve. Così le lascio esprimere tutta l’autocommiserazione di cui è capace – ed è veramente molta – e pian piano comincio a costruire gli argini come un agricoltore del Polesine, coi sacchi di sabbia, un sacco alla volta, con pazienza.
Non è facile, soprattutto se non sei stato trattato così tu da bambino. Certe volte mi capita ancora di reagire come avrebbe fatto mia mamma, con un’esortazione, o peggio ancora un moto di rabbia, con quell’incapacità che conosco così bene di leggere quello che sta sotto la buccia grinzosa di una risposta.
Alla fine del pranzo siamo d’accordo che c’è del lavoro da fare sui tempi dei verbi, sia per quanto riguarda l’uso nei testi, sia per quanto riguarda l’analisi, e che le prove d’ingresso ci fanno vedere quali sono i punti di forza e di debolezza per consentirci di lavorarci sopra. Non mi ricordo che cosa abbiamo mangiato quel giorno, né che sapore avesse. Ricordo però il profumo dei suoi capelli quando ci siamo abbracciate prima di andare a lavorare.
Testo raccolto durante un laboratorio di gruppo con genitori di preadolescenti